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Stefano Modena oggi |
(9/5/2013) – Domenica prossima Stefano Modena compie 50 anni. Un bel traguardo
anche questo, per l’ex pilota di Formula 1 (tra il 1987 e il 1992) di San Prospero,
in provincia di Modena, che seppe conquistarsi il rispetto di Ayrton Senna e la considerazione di Enzo Ferrari. La sua, tutto sommato, è
stata una carriera rapida nella massima formula ma impreziosita da perle che
nessun appassionato dimentica e che hanno fatto sognare chi parteggiava per i
piloti italiani e non (solo) per la Ferrari.
Da alcuni anni, con la consueta efficacia, è addetto allo
sviluppo e collaudo degli pneumatici Bridgestone presso il Centro Tecnico di
Aprilia, oltre che coinvolto nel settore Marketing ed Eventi della grande Casa
giapponese.
Stefano, hai cominciato con i kart
ma hai sempre detto di non essere un appassionato di automobilismo bensì di
prediligere in generale la competizione, il challenge. Considerando i rischi
insiti nel motorismo, perché allora non hai pensato, per dire, alla pallavolo?
I motori erano la grande passione
di mio padre. Lui se ne intendeva davvero, era molto tecnico, veramente capace.
Da ragazzino, mi portava a girare sui kart e, crescendo, la passione è
aumentata perché era piacevole, divertente. Poi, quando si corre, si impara ad
evitare i rischi. Ma confermo che per me l’automobilismo è stato passione per
la sfida e l’auto rappresenta solo un confortevole mezzo di trasporto.
Qual è stata la tua pista kartistica
di riferimento agli albori della carriera?
Soprattutto la pista di San
Pancrazio di Parma. La conoscevo bene: era molto utile a livello di
preparazione del telaio e meno in fatto di guida. Ci voleva soprattutto motore.
Un bellissimo impianto e una pista molto tecnica, dove si imparava molto, era
invece la Pista
d’Oro di Roma: chi andava forte lì, andava forte un po’ dappertutto.
Che tipo di pilota è stato Stefano
Modena? Un talento puro, uno molto veloce, un pilota con buone doti di collaudatore?
Non penso, in tutta sincerità, di
essere stato uno dei migliori piloti in circolazione. A livello di velocità
pura e di preparazione meccanica ci sono stati certamente altri più bravi di
me, più caparbi. Io avevo una mentalità particolare: non ho mai pensato in
grande. Mi concentravo molto su quello che avevo in mano in quel momento e
sulla singola gara. Non pensavo alla classifica finale ma solo a vincere. Ero
affamato di vittorie perché il mio pensiero fisso era: “Se vinco vado avanti”.
Sei uno dei pochi italiani ad aver
conquistato l’attenzione di Enzo Ferrari. Ad un certo punto sei stato molto
vicino ad approdare a Maranello: perché non si è arrivati al dunque?
Mah, forse è stato un bene. Sai,
io dico che i successi più belli sono quelli che arrivano in squadre
competitive e preparate, anche piccole ma al top. All’epoca (fine anni ’80), la Ferrari , senza voler
offendere, era una squadra un po’ sbandata. Non c’era una guida salda come
quella, anni dopo, di Jean Todt e di Ross Brawn. E se non si è ben supportati è
difficile emergere. Sono sicuro: per me sarebbe stato un disastro, una
catastrofe.
Hai esordito alla Brabham-Bmw
nell’ultimo GP del 1987, poi un anno alla Eurobrun e di nuovo alla Brabham-Judd
per due anni, 1989-1990. Bellissimo quel terzo posto a Montecarlo nel 1989. Lì
sul podio, accanto a due mostri sacri come Senna e Prost, cosa pensavi, quale
futuro vedevi dischiudersi davanti a te?
Mi sentivo realizzato, fiducioso.
Vedevo prospettive di successo sicuro. Quell’anno fu fantastico, il primo con
una squadra di medio livello ma di enorme professionalità. Da loro e anche dal
mio compagno di squadra con più esperienza, Martin Brundle, ho imparato
tantissimo. E’ stato forse il periodo più bello di crescita personale.
Nel 1991 sei passato alla Tyrrell
con motore Honda e tutti ricordiamo in particolare il secondo posto in Canada e
la prima fila di Montecarlo dietro il solo Senna che in gara hai pressato
finché non ti è esploso il motore.
Quell’anno c’era da aspettarsi di
più. La squadra aveva un buon potenziale ma se non è esploso è anche per colpa
mia. Il fatto è che avevo lasciato la Brabham , una squadra affiatata e professionale e la Tyrrell era diversa. Poi,
dopo tre gare il progettista Postlethwaite ci lasciò e così fecero altri tecnici.
La macchina non era bilanciata a livello aerodinamico e il motore Honda che ci
veniva fornito non era certo quello con le specifiche in uso alla Mc Laren.
Quando ci si rese conto che c’era da soffrire, la squadra tirò un po’ i remi in
barca e forse io stesso non fui all’altezza della situazione.
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Alla Tyrrell nel 1991 |
In quell’anno, a Spa esordì molto
bene un giovanotto tedesco non troppo conosciuto di nome Michael Schumacher.
Visto da vicino, pensavi che sarebbe diventato un campionissimo?
Per me non fu una sorpresa. Mio padre,
che continuava a seguire il mondo del kart, mi informava dei talenti che vedeva
affacciarsi sulle piste. I suoi occhi guardavano per me. Schumacher era uno di
quelli. Poi ricordo di aver parlato di lui con uomini Mercedes. Michael aveva
una mentalità vincente.
Con Senna hai battagliato fin dai
kart, pensi che senza l’incidente avrebbe vinto un altro mondiale?
Sicuramente sì, anche in quel
tragico 1994. La Williams
stava crescendo e poi Senna arrivava da tanti anni in Mc Laren, un team
perfetto, con una certa metodologia. Per lui era molto difficile entrare in un
nuovo gruppo di lavoro, trovare punti di riferimento. In quei casi occorre
capire se trainare la squadra o adattarsi. Quel momento di difficoltà stava
passando, ma poi…
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Alla Jordan Yamaha nel 1992 |
Tornando a te, nel 1992 sei
passato alla Jordan molto menomata dalle bizze del motore Yamaha. Ma perché è
stato l’ultimo anno in F.1 per un pilota che aveva dimostrato di avere dei
numeri? Non c’era proprio nessun’altra possibilità?
Il talento non basta. In F.1, se
non si hanno risultati e soldi – e io non ne ho mai portati - si viene eliminati molto presto. Fu una grossa
delusione, ma non c’era più alcuna possibilità di continuare.
C’è un pilota nel quale ti rivedi
o che attira la tua simpatia?
Non seguo molto le corse né leggo
riviste specializzate. Ogni tanto guardo in tv la F.1 o qualche gara americana.
Oggi è difficile riconoscere un talento in F.1 ma mi sembra che il francese
Vergne abbia buone capacità. Poi mi piace Hamilton che andava forte già sui
kart e che può somigliarmi per quella sua caparbia voglia di vincere ogni gara,
con qualsiasi monoposto abbia tra le mani. Quando correvo io, il pilota contava
al 40%, che poteva diventare 50-60% su taluni circuiti. Oggi la macchina è
fondamentale anche se non posso dire di avere certezze perché non conosco le
vetture.
Risiedi da anni a Roma, ma
mantieni contatti con la tua Modena?
Certo, torno spesso a San Prospero.
Papà non c’è più, ma ci sono mia madre, una sorella, un fratello e tanti amici.
Lì mangio cose straordinarie. E’ la mia terra e rimane nel mio cuore.
Un ultima domanda. Quando hai
vinto il titolo di F.3000, nel 1987, partecipava a quel campionato anche
Gabriele Tarquini che oggi ha un anno più di te e corre ancora per la Honda ufficiale nel Mondiale
Turismo. Non hai qualche rimpianto per essere uscito dal giro troppo presto?
Guarda, l’unico rimpianto che ho è
quello di non aver vinto in F.1. Questo mi dispiace perché in altre categorie
ho sempre vinto. Come ti ho detto, mi interessava vincere le gare ma quando la
motivazione è un po’ calata anche la passione per il challenge è scemata.
Buon
Compleanno, Stefano!
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Con la Brabham l'esordio in F.1 e due anni 1989-1990 |
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Buona l'esperienza alla EuroBrun nel 1988 |
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